Chi non è dentro, non lo sa cosa succede al cuore la domenica quando si entra nello spogliatoio immacolato. Nel silenzio si scelgono le scarpe migliori per affrontare il campo. Il mister sa già da giorni a chi si affiderà, ma la distinta ancora non c’è. Allora si spera ancora. Chi sa di essere tra i panchinari, sogna un ripensamento dell’allenatore all’ultimo momento. Le bandiere e i bomber, sicuri di giocare, si mettono a scherzare coi ragazzi che fanno la regola. I giovani hanno una paura fottuta, le gambe che tremano, i leader li aiutano ad allentare la tensione, prendendoli in giro sulla ragazza che hanno appena aggiunto su Facebook. Ma tutti hanno i brividi, pure il capitano e il vicecapitano, persino il celebrato capocannoniere. E’ un attimo e arriva il mister, che prima della partita si traveste da padre. Dà la formazione, consegna numeri e maglie, racconta i movimenti che i suoi giocatori dovranno fare, glieli ripete dosando le parole, carica e rassicura ognuno con le frasi di cui hanno bisogno per dare il meglio. Carezze e buffetti, sorrisi e mille “forza, ragazzi, fuori i coglioni”. Arriva l’arbitro, fa l’appello, a qualcuno viene una goccia di pipì perché ormai ci siamo. Dallo spogliatoio al campo sono manco due minuti, ma ci passa dentro la vita, cento e passa ricordi di tante sfide andate, vinte, perse o pareggiate, il risultato non importa, purché siano state lottate dal primo all’ultimo minuto. S’incontrano gli avversari, molti si conoscono, alcuni di loro venerdì sera sono stati a tirare notte con te. Nella vita sono amici, in campo questa domenica i nemici da battere. Nel saluto al pubblico c’è chi cerca suo padre, che solo a vederlo rassicura perché c’è sempre e da sempre, chi la propria fidanzata, chi la ragazza stracarina conosciuta la sera prima, chi il ds della società dei sogni, quella che paga bene bene i rimborsi, chi il presidente, il primo tifoso, che come tutti ha i suoi preferiti. Ognuno gioca per qualcuno, vederlo sugli spalti carica a mille, fa andare il cuore e le gambe oltre l’ostacolo. Si parte. E tanto fanno i primi dieci minuti, chi comincia col piede giusto, va in crescendo, chi sbaglia il primo dribbling, capita che ne combini una dietro l’altra e finisca sostituito alla fine del primo tempo. Il mister c’è, presente con i suoi urlacci dalla panchina. Niente di personale, ragazzi, solo un’irrefrenabile voglia di vincere. Passano i minuti, la stanchezza allunga il campo ed escono i migliori, quelli abituati a risolverla. La punizione è invitante, la barriera è messa male, l’arbitro fischia, il numero dieci fa una breve rincorsa e la mette a girare, appena sotto il sette, dove il portiere avversario non può arrivare. Esplode la gioia del fantasista, di tutti i compagni in campo, che vanno ad abbracciarlo, a strattonarlo e a tirargli schiaffetti sulle guance. La felicità è dappertutto, nell’applauso incazzoso del mister (“ma ora non molliamo”), tra i panchinari, tutti in piedi, tra chi è in tribuna, persino sul volto dei giornalisti presenti, che di fronte a una prodezza del genere non si può essere imparziali. E’ il calcio, bellezza, il gioco più bello al mondo, si tiene sempre a qualcuno. Chi non è dentro, non può immaginare le emozioni di chi gioca, di chi allena, di chi arbitra, di chi fa il tifo o di chi racconta una partita. E’ come fare l’amore, a volte ancora meglio, se sei proprio tu a segnare o a parare un rigore o a fare la chiusura perfetta sul fenomeno lanciato a rete. Allora io, che come tutti da due mesi non sto più giocando né vedendo una partita di calcio e che questa mattina ero talmente nella malinconia da mettere in televisione un meraviglioso Argentina-Inghilterra del 1998, chiedo a chi ci governa di fare presto. Di trovare al volo il rimedio, il vaccino o l’antidoto a questa perfida malattia per far cessare il dolore e farci tornare in campo. Perché chi non è dentro, non lo sa cos’è per noi un mondo senza il nostro pallone. E’ come viverla a metà.
Autore: Mattia Vavassori
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