Paolo Pulici, anche noto, grazie a Gianni Brera, come “Puliciclone”, oggi compie 70 anni e si racconta a "La Repubblica". Lo storico calciatore del Torino da 30 anni allena i bambini della Tritium a Trezzo sull’Adda e solo al calcio dei bambini è interessato: "Quello dei ragazzini sì. Quell’altro mi interessa poco, non mi diverte più da un pezzo. Vedo partite in cui impiegano sette ore per fare una roba vagamente interessante, tirano avanti con questo possesso palla all’infinito che noi chiamavamo melina. Oggigiorno sei fortunato se ci sono cinque o sei tiri a partita, ma ai nostri tempi ce n’erano una cinquantina e la gente non aveva neanche il tempo di tirare il fiato. Non mi cambia di una virgola se riprende la serie A. Ma tanto bisogna vedere come fanno a sistemare le cose: come si farà a lasciare un metro tra un attaccante e un difensore? Oddio, a ben vedere qui non c’è più nessuno che marca standoti addosso. Quando giocavo avvinghiarsi con lo stopper per tutto il tempo era normalissimo. Con le porte chiuse io sarei morto. Mi sono sempre orientato con il rumore, la curva Maratona era la mia bussola sensoriale: non avevo bisogno di vedere la porta, ma la sentivo perché erano i tifosi a guidarmi. Sapevo perfettamente dove dovevo calciare senza bisogno di guardare. Mi bastava ascoltare. Magari non c’era la bussola, ma non mancava lo stimolo ed erano gli insulti dei tifosi avversari in trasferta a darmelo. Adesso è diverso, ma noi sapevamo che non ci insultavano per odio o per il puro gusto di farlo, ma per paura che gli facessimo gol. Era una sfida, leale. Senza gente sugli spalti, il calcio non sarebbe uno sport. Già così si fa fatica a vedere un po’ di adrenalina in campo, figuriamoci nel silenzio. Mi manca eccome sentire le urla e le grida dei bambini che alleno, la loro gioia, il loro entusiasmo: sono pronti a tutto, non hanno paura di niente. Andrò a cercare la normalità, qualcuno con cui fare quattro chiacchiere. Adesso è un mortorio. Belotti? E' bergamasco, e chi conosce sa che tipo di carattere hanno quelli, ma per arrivare a certe altezze devi avere qualcuno che ti sostiene. Da solo, non vali nulla. Ai miei ragazzini dico: “Se pensi di essere così bravo, gioca da solo contro cinque e dimostramelo”. Prima mi guardano un po’ interdetti, poi capiscono la lezione. Nessuno di noi si vergognava di chiedere aiuto. Se ero in difficoltà, lo segnalavo ai compagni che subito mi venivano in soccorso. Mai vergognarsi di non farcela da soli. In Lombardia  vedo gente molto provata ma che lavora e fa di tutto per mettersi nelle condizioni di risolvere i problemi. Ma sarebbe stato meglio che quello di cui avevamo bisogno ce lo avessero predisposto prima, invece di far diventare gli ospedali degli ospizi solo per chi paga. Mi è stato insegnato che un problema va affrontato a testa alta e che la paura tante volte peggiora solo la situazione".

Sezione: PRIMO PIANO / Data: Lun 27 aprile 2020 alle 10:00
Autore: Mattia Vavassori
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